Ci sono argomenti di cui non è facile parlare. Perché sono scomodi, oppure complessi. O ancora, perché richiedono di mettersi in discussione.

Uno di questi è l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole. Se ne parla da decenni – ci si scontra da decenni, sarebbe meglio dire – ma paure, barriere ideologiche e a volte una certa miopia educativa hanno sempre portato alla peggiore delle conclusioni: per non sbagliare, meglio non fare. Salvo tornare a dibatterne quando la cronaca ci ripresenta prepotentemente davanti agli occhi l’enorme fragilità affettiva che affligge i nostri ragazzi. Schiacciati dall’assenza educativa degli adulti, da uno stile di vita improntato al disimpegno, dalla paura del futuro, dalla banalizzazione della sessualità, bambini e adolescenti crescono senza quella alfabetizzazione emotiva che sta alla base del saper vivere in relazione con gli altri.

Da molti anni entro nelle scuole secondarie di primo e secondo grado per incontrare i ragazzi e parlare loro di sesso, emozioni, sentimenti, identità, relazioni e intimità. Ed ogni volta, alla fine degli incontri, la loro reazione è sempre la stessa: ringraziano perché qualcuno li aiuta a mettere gli occhi, e con essi il cuore e la testa, sulle due domande più importanti della vita: Chi sono io? e Per chi sono io?
Due domande che riportano ai fondamenti dell’esistenza umana: identità e relazione, amore per sé stessi e amore per gli altri. Due domande che aprono lo sguardo sulla profondità ed al contempo sulla ineffabilità dell’unica esperienza che dà pienezza di significato alla vita dell’uomo: l’amore.

Ricordo ancora la risposta di una tredicenne alla seconda domanda: Io sono per chi mi merita. Pensando alla povera Giulia ed a tutte le donne che ogni 72 ore muoiono in Italia per mano di coloro che dicono di amarle, le parole di quella tredicenne risuonano come un messaggio che ogni donna – ma anche ogni uomo – dovrebbe gridare alla persona che ha accanto: Se vuoi stare con me, sappi che io valgo tanto. E che quindi mi devi meritare. Altrimenti cercati qualcun altro.

Ma quanti dei nostri ragazzi crescono con questo sano amore di sé capace di proteggerli dalla tossicità di certe relazioni? Siamo ancora scossi dalla tragica morte di Giulia Cecchettin, un evento che ha aperto per l’ennesima volta gli occhi su quanto sia urgente educare l’affettività dei nostri ragazzi. Dei maschi e delle femmine, sia chiaro. Ridurre il problema alla cultura patriarcale della nostra società mostra a mio avviso un’incapacità di comprendere sia i giovani, sia la complessità del mondo nel quale essi crescono e noi viviamo. Trent’anni fa la società era sicuramente più maschilista di quanto non lo sia adesso, eppure il numero di femminicidi non era minimamente paragonabile a quello di oggi. Evidentemente ci deve essere qualcos’altro oltre al problema del patriarcato. A nulla serve combattere la visione maschilista della società e della vita, che indubbiamente è ancora dura a morire, se non si interviene anche sulle cause che alimentano la fragilità delle nuove generazioni: la banalizzazione della sessualità, la crisi della famiglia, e, non ultimo, l’insistenza sul cancellare le differenze di genere che lungi dall’essere un problema sono invece una ricchezza. Dobbiamo avere il coraggio di dire che le specificità di genere sono la strada migliore per combattere gli stereotipi, di ricordare che maschile e femminile sono due mondi da integrare e non da uniformare, che il rapporto tra i generi passa dal rispetto reciproco e non soltanto da quello degli uomini verso le donne.

“Io penso che la femmina deve stare in casa a servire l’uomo” ma anche “E’ normale che la donna stia a casa a fare le pulizie mentre il marito lavora” sono frasi terribili che mi sono sentito dire a scuola da ragazzi di tredici anni e che indubbiamente sono frutto del maschilismo e della cultura patriarcale che abbiamo ereditato dalla storia. Ma sono anche il segno di una mancanza di sensibilità che non dipende dall’essere maschi, tant’è che all’ascoltare queste frasi i volti disgustati non erano solo quelli delle ragazze presenti in aula ma anche quelli dei compagni maschi. Per questo prima di parlare di amore, affettività e sessualità, quando incontro i ragazzi lavoriamo a lungo sul tema del rispetto, per comprendere che esso sta al di sopra di ogni differenza di genere.

Qualche giorno fa il Ministro dell’Istruzione Valditara ha presentato un piano del Governo per promuovere l’educazione dell’affettività nelle scuole. Il titolo è ambizioso: Educare alle relazioni. Il piano prevede che nelle scuole superiori si possano dedicare delle ore extracurriculari e facoltative durante le quali i ragazzi, riuniti in “gruppi di discussione” possano trattare questi temi con la moderazione di un insegnante.

L’intenzione è lodevole ma i dubbi sono tanti. Perché le attività sono solo facoltative ed extracurriculari, con il rischio di non coinvolgere proprio quei ragazzi che ne avrebbero più bisogno? Ad esclusione del docente referente, come si concretizza la presenza degli adulti? E soprattutto, che ruolo hanno i genitori, primi educatori dei loro figli, oltre a quello di dare il consenso alla partecipazione a tali attività? Perché non è stato pensato nulla che li coinvolgesse attivamente nell’educazione dei loro figli su un tema così importante e delicato? E perché non è stato previsto niente per le scuole medie ed elementari?

Queste domande non vogliono essere una critica fine a se stessa all’iniziativa del Governo. Anche perché probabilmente arriveranno ulteriori indicazioni da parte del Ministero, soprattutto per ciò che riguarda la necessaria formazione dell’insegnante che modererà i gruppi di discussione. Vogliono essere da sprone perché chi legge e si interroga su come aiutare i ragazzi ad imparare l’arte delle relazioni non si defili all’idea che tanto c’è qualcun altro che ci pensa. Sarebbe troppo comodo. O meglio, irresponsabile. E sarebbe l’ennesima occasione persa per tornare a fare gli adulti e non lasciare soli i nostri ragazzi.

Articolo pubblicato su Avvenire del 17 dicembre 2023

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